La connessione tra consumo di carne e sostenibilità

2024: La connessione tra consumo di carne e sostenibilità

Con Gennaio si è concluso Veganuary, un evento annuale che ha raccolto una partecipazione senza precedenti indicando un cambiamento significativo nelle abitudini alimentari della popolazione. In Italia, oltre 1,7 milioni di persone hanno abbracciato la sfida di adottare uno stile di vita plant-based, evidenziando un crescente interesse verso una dieta più sostenibile ed etica. Ma cosa spinge così tante persone a fare questa scelta? L’etica, la salute e la sostenibilità sono le motivazioni principali dietro questa tendenza.

A noi di SELIN preme approfondire questo tema principalmente in chiave ambientale, per tutto quello che concerne l’impatto che le nostre scelte alimentari hanno sul pianeta.

Dal punto di vista etico, la produzione intensiva di carne ha un lato oscuro, caratterizzato da condizioni terribili negli allevamenti, lato che i consumatori di carne preferiscono purtroppo non conoscere. Secondo il Sistema informativo Veterinario del Ministero della Salute, solo in Italia, in un solo anno, sono oltre 600 milioni gli animali macellati dopo essere stati allevati in spazi ristretti, soggetti a mutilazioni e trattamenti crudeli per massimizzare la produzione. La carne che finisce sulle nostre tavole è il risultato di una catena di produzione che implica sofferenza animale e sfruttamento e che crea alti livelli di stress, favorendo la diffusione di malattie.

Nessuna madre alleva i propri figli: i vitelli vengono allontanati a poche ore dal parto, mentre le scrofe trascorrono insieme ai propri cuccioli solo 20 giorni. La carne che mangiamo proviene da animali uccisi giovanissimi, la maggior parte di loro ha solo qualche giorno di vita. Senza dimenticare i pulcini maschi frullati vivi o uccisi con il gas il giorno in cui nascono (purtroppo non è leggenda, è realtà). E’ vero che nel 2022 si è finalmente arrivati ad una legge che vieta la pratica a partire dal 2026 ma si tratta di un tempo di entrata in vigore veramente lungo per vietare una barbarie.

La carne che arriva sulle nostre tavole è inoltre quanto di più lontano dalla definizione di cibo sano.
Occorre infatti ricordare l’illuminazione forzata che regola il ciclo sonno-veglia per accelerare la crescita dei polli, le cure con antibiotici sciolti nell’acqua e somministrati anche ai soggetti sani (il fatto che le carni vengano immesse sul mercato solo se conformi a quanto previsto dalla normativa è irrilevante: non significa che non stiamo assumendo carne trattata con antibiotici), i mangimi a base di insilati di mais e legumi dati a bovini che dovrebbero mangiare erba.

La sicurezza della filiera alimentare è direttamente legata al benessere degli animali e, sicuramente, è da tenere in considerazione la connessione tra allevamenti intensivi e sviluppo e diffusione di parassiti, incubazione di nuovi virus, malattie croniche, antibiotico resistenza. Ma gli effetti peggiori del consumo di carne non sono certo legati ai parassiti quanto al legame tra abuso di carne e cancro, malattie cardiovascolari, obesità, diabete. Spesso i detrattori di queste affermazioni si concentrano principalmente sul concetto di abuso senza rendersi conto, ad esempio, che il consumo massimo suggerito di salumi ed insaccati è indicato in 50 grammi a settimana mentre gli italiani ne consumano in media 217 grammi.

L’aspetto più rilevante da considerare in questa sede è però l’impatto ambientale del consumo di carne. Gli allevamenti intensivi sono tra i principali responsabili delle emissioni di gas serra, contribuendo significativamente al riscaldamento globale. Il loro impatto non si limita alle emissioni di CO2, ma include anche metano e protossido di azoto, gas con un potenziale riscaldante molto più elevato.

Secondo recenti studi dell’IPCC, il settore zootecnico emette il 65% del protossido d’azoto globale e il 50% del metano – praticamente alla pari con i carburanti fossili – che sono più inquinanti dell’anidride carbonica rispettivamente di 298 e 25 volte. Il metano emesso oggi fra 100 anni avrà fatto 25 volte i danni della stessa quantità di anidride carbonica, pur avendo un ciclo vitale assai più breve della CO2 (circa 12 anni). Quindi, in quei dodici anni, il suo effetto è quasi il triplo più potente. Sostanzialmente, essendo il metano un gas molto più potente, se eliminassimo gli allevamenti vedremmo immediatamente un miglioramento.

Inoltre, la produzione di carne richiede un’enorme quantità di risorse naturali, tra cui acqua e terreno agricolo, contribuendo allo sfruttamento insostenibile delle risorse del pianeta. Un burger di manzo ha un’impronta idrica media di 2350 litri: è l’acqua che un essere umano beve in tre anni. Un burger di soia, invece, ha un’impronta idrica pari a solo il 7% del suo equivalente di carne.

Altri dati rivelano che tra pascoli e terreni coltivati a mangime per gli animali vengono sfruttate il 77% delle terre coltivabili del pianeta, producendo però solo il 17% del fabbisogno calorico globale e il 37% del fabbisogno proteico globale. Un grande spreco, considerando che nel mondo 1 persona su 9 soffre la fame e 1 su 3 ha una forma di malnutrizione.

La produzione di carne implica anche una serie di problemi ambientali legati alla gestione dei liquami ed al mancato rispetto dei limiti di smaltimento.

L’allevamento intensivo è stato oggetto di discussione sin dagli anni Settanta, ma ad oggi non esiste alcun regolamento efficace a livello comunitario o nazionale che ne regoli l’attività. Nonostante venga spesso pubblicizzata con immagini idilliache di animali al pascolo, è importante sottolineare che la carne da allevamento intensivo non è un prodotto agricolo, ma industriale. Infatti, gli allevamenti intensivi non hanno un legame diretto con il terreno agricolo. Non utilizzano lo spazio per il pascolo e non contribuiscono ad arricchire il terreno. Sono soggetti a normative ambientali simili a quelle delle industrie pesanti o delle attività ad alto impatto ambientale, come le acciaierie o lo smaltimento di rifiuti pericolosi.

Il legame tra allevamento intensivo e inquinamento è stato a lungo sottovalutato, in parte a causa della propaganda delle grandi aziende che dipingono un’immagine bucolica di mucche al pascolo. Tuttavia, la realtà è molto diversa. Gli animali negli allevamenti intensivi sono alimentati con mangimi geneticamente modificati anziché con erba naturale e sono sottoposti a cure antibiotiche per prevenire malattie dovute alle condizioni di vita insalubri.

Le loro deiezioni e liquami si accumulano in enormi quantità, diventando una fonte significativa di inquinamento ambientale, con livelli di tossicità spesso oltre i limiti consentiti in particolar modo a causa dell’ammoniaca delle deiezioni rende l’aria irrespirabile e fa parte delle emissioni definite “inquinanti”. In Italia l’allevamento contribuisce al 17% delle emissioni di PM 2.5 (particelle di polveri sottili aventi dimensioni minori o uguali a 2,5 micron), grazie principalmente all’ammoniaca.

Altre sostanze restano nel suolo e fluiscono poi nelle falde acquifere. Fra esse, l’azoto è una delle peggiori per l’acidificazione del suolo e l’eutrofizzazione delle acque. La filiera zootecnica contribuisce a un terzo delle emissioni globali di azoto, con un valore che da solo è superiore a quello che la terra può sopportare e gli allevamenti contribuiscono quasi al 40% delle emissioni globali di azoto.

Questa situazione mette in discussione la sostenibilità dell’attuale modello di produzione di carne. L’eccessivo utilizzo di risorse, la produzione di rifiuti incontrollati e l’inquinamento ambientale associato agli allevamenti intensivi pongono seri interrogativi sul futuro della nostra alimentazione e sulla salute del nostro pianeta.

Gli studi condotti dalla FAO e dai principali esperti di sostenibilità ambientale evidenziano un impatto significativo degli allevamenti intensivi anche sulla biomassa del pianeta, ovvero la massa di tutti gli esseri viventi determinata attraverso il carbonio. Questi studi rivelano un’inequivocabile incompatibilità tra gli allevamenti intensivi e l’equilibrio ecologico globale, perché gli allevamenti intensivi peggiorano aria, acqua, suolo e aumentano la povertà alimentare per lo spreco di terra che l’allevamento comporta.

Secondo uno studio pubblicato su The Lancet nel 2019, l’unico modo per garantire la sicurezza alimentare per i 10 miliardi di persone previste entro il 2050 (sono solo 26 anni da adesso) è quello di utilizzare in modo più efficiente il 77% delle terre coltivabili attualmente destinate all’allevamento intensivo e alla sua filiera. Questo implica una transizione verso una dieta universale più sana e sostenibile, basata principalmente su alimenti di origine vegetale.

La scienza ha ormai inequivocabilmente dimostrato che una dieta a base vegetale potrebbe da sola contenere l’aumento della temperatura nella soglia di 2 gradi prevista dagli accordi di Parigi e che eliminare completamente gli alimenti di origine animale può ridurre le emissioni di anidride carbonica di otto miliardi di tonnellate all’anno (Ultimo rapporto IPCC, Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico).

Tuttavia, il cambiamento non può avvenire senza un impegno collettivo. Come individui abbiamo il dovere di riflettere sulle nostre scelte alimentari e considerare l’impatto che hanno sul pianeta e sul benessere degli animali. Possiamo iniziare ad adottare piccoli cambiamenti nella nostra dieta, riducendo gradualmente il consumo di carne e privilegiando alimenti a base vegetale.

L’ora di agire è adesso. Il futuro del nostro pianeta dipende dalle scelte che facciamo oggi.
Quindi ci chiediamo: saremo in grado di abbracciare uno stile di vita più sostenibile e rispettoso dell’ambiente? La risposta sta nelle nostre azioni quotidiane.

Silvia Bertacca

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